Hamila

 


Mi hanno promessa in sposa, a un certo Nadir, quando avevo solo 13 anni. Hanno detto che una volta sposata avrei aiutato la mia famiglia a risanare alcuni debiti. Ero solo una bambina e non capivo cosa volessero dire. 
Vivevo in una famiglia numerosa, ma ero l’unica ragazza. Ho avuto un’infanzia felice, amavo giocare con mia madre; costruivamo una rete nel giardino di casa e con una palla improvvisata, giocavamo a pallavolo. È da lì che è nata la mia passione.
All’età di 6 anni mi iscrissi ad un corso per iniziare ad allenarmi. Ero davvero molto in gamba, le allenatrici mi facevano sempre i complimenti per come giocavo, ogni volta che finivo gli allenamenti ero sempre più soddisfatta e sempre più fiera di me stessa. Nel ’92 tutto è stato interrotto. C’è stata una cruenta guerra civile contro la dominazione Russa. Speravo che tutto si sarebbe risolto al meglio, ma nel ’96 le cose peggiorarono sia nel Paese, sia nella mia vita. I talebani presero possesso di Kabul e iniziarono ad istituire il loro regime autoritario. 
Nello stesso anno, i miei genitori mi diedero la notizia più brutta della mia vita; mi sarei dovuta sposare con un uomo che nemmeno conoscevo. 
Quest’uomo era più grande di me, non sapevo chi fosse, non sapevo nulla di lui e nemmeno della sua vita. 
Molte mie amiche erano state promesse a uomini, anche molto più grandi di Nadir. Dopo essersi sposate non le avevo più riviste, nessun messaggio, nessuna lettera, nessun cenno di vita da loro. Era forse questo quello che mi aspettava? A cosa serviva questo matrimonio? Perché hanno dovuto scegliere i miei genitori chi sposare? Non capivo, ero una semplice bambina…
Dopo aver incontrato lui e la sua famiglia, i miei genitori iniziarono a cambiare atteggiamento nei miei confronti. Mia madre non giocava più con me a pallavolo, mi faceva fare “i lavori da donna”, mio padre non mi trattava più come “la sua piccola principessina”, anzi, mi trattava come una vera e propria schiava. Era forse questo il mio nuovo ruolo?
Nel frattempo iniziarono i preparativi per il matrimonio. Pensavo che avrei deciso io il mio vestito, era l’unica cosa che mi faceva pensare alle favole che mi raccontava mio fratello Omar prima di andare a dormire. 
Non scelsi nemmeno quello. Ci pensò mio padre. Pensò a tutto lui perché io non avevo il diritto di parlare se non quando venivo interpellata. 
Non riuscivo a comprendere bene la situazione, mi sembrava tutto così caotico, irreale. 
Arrivò il giorno del matrimonio. Avevo 13 anni e lui 17. Erano tutti felici, tutti ridevano, scherzavano, ballavano, cantavano… Io no. Ero triste, arrabbiata, impaurita. Chi era quell’uomo che era diventato mio marito? Cosa voleva da me? Perché erano tutti felici in un giorno del genere? Perché tutti mi facevano i complimenti “per essermi finalmente sistemata”? Perché ‘finalmente’? 
Tante, troppe domande senza nessuna risposta. Tante domande che non capivo. 
Ma tutto questo l’avrei capito dopo, con il passare del tempo.
La prima notte di nozze non andò per nulla bene, per quel che ricordo. Lui iniziò a spogliarsi. Ero inorridita da ciò che vedevo. All’inizio non capivo cosa stesse facendo, poi ho subito realizzato che le sue intenzioni non erano buone. Stava succedendo quello per cui mi diceva di stare attenta mio fratello. Ma perché allora nessuno veniva a salvarmi? Perché quell’uomo che non conoscevo mi stava facendo questo? 
La mattina dopo mi risvegliai tutta dolorante, andai allo specchio e vidi che ero piena di lividi. Lui mi guardò e se ne andò quasi con aria soddisfatta. Crollai. Iniziai a piangere. Ero la piccola principessina di papà, lui diceva che nessuno mi avrebbe toccato se ci fosse stato lui al mio fianco, ma ora, dov’era? 
I giorni passarono e la situazione non migliorò. Volevo risposte, avevo bisogno di risposte. 
Decisi, quindi, di andare a casa dei miei genitori, ovviamente accompagnata da lui. I miei erano felici di vedermi, ma nonostante i lividi evidenti non mi fecero nessuna domanda. Mi dissero soltanto:”si vede che sei molto felice con lui!”
Ero pietrificata. I miei genitori, che mi avevano tanto amata, non mi hanno chiesto come stessi, il perché di quei lividi, si limitarono solo ad una stupida esclamazione non vera, a cui però, fui costretta a rispondere con una bugia.
“Sì mamma, sono molto felice”
Non era vero. Stavo morendo sia all’interno che all’esterno. Ma loro non se ne accorsero. 
Finalmente arrivò mio fratello Omar a casa, che subito corse da me e mi abbracciò. 
Nadir diventò rosso come un peperone. 
Omar mi sussurrò all’orecchio:”so che ti fa male, ma è per il bene della famiglia, ci aiuta a risanare i debiti”
I debiti? Cos’erano? Cosa voleva dire?
Il tempo passava e la situazione non sembrava migliorare. 
Nacque nostro figlio, il mio piccolo angioletto, avevo 15 anni, lo amavo più di ogni altra cosa al mondo, ma ovviamente non ero stata io a scegliere il suo nome, non ero stata io ad andargli a comprare i primi vestitini, non ero stata io ad accompagnarlo al suo primo giorno di scuola. Io servivo solo per accudirlo. Ogni giorno dovevo cucinare alla stessa ora per Nadir e il mio piccoletto, ma spesso, il mio cosiddetto “marito” mi mandava via, non mi faceva cenare, perché doveva insegnare delle cose importanti a “nostro” figlio. 
Un giorno uscii con mio fratello Omar per andare a fare la spesa al mercato, era una cosa che facevamo ogni settimana per vederci e per prendere un po’ di aria fresca. “A casa mia” sentivo soffocarmi, sentivo l’aria pesante, non stavo bene, venivo maltrattata e l’unico momento di “svago” che potevo avere era quest’uscita con mio fratello. Quel giorno, Omar, fece un giro strano. Mi portò in un posto nascosto, dentro un minimarket. Li trovai altre ragazze, senza burqa che giocavano a pallavolo. Altre ragazze? Stavano giocando? All’inizio non capivo cosa stesse succedendo ma poi mio fratello mi disse:”Ecco, questo è il tuo regalo”. Non feci in tempo ad abbracciarlo che subito, presa dall’emozione, iniziai a piangere. Mio fratello mi rassicurò e mi disse che questo sarebbe stato “il nostro piccolo segreto”. Da quel giorno, ogni settimana, quando andavo al mercato, poi cambiavo strada e, dopo essermi assicurata che non mi vedesse nessuno, andavo a giocare con le altre ragazze. Un giorno una di quelle ragazze che era nella mia stessa situazione, mi disse che per far calmare suo marito, usava delle spezie speciali e mi indicò dove comprarle. Iniziai a metterle nei pasti di Nadir e notavo che spesso, era un po’ stordito e andava a dormire. Funzionavano!
Dopo aver scoperto queste spezie, iniziai ad andare agli allenamenti più spesso, dato che lui dormiva. Pensavo che non mi avrebbe scoperta mai e invece…
Spari,
Terrore,
Poi silenzio.
Non riuscivo a sentire nulla, ero distesa a terra, in una pozza di sangue. Ero morta.
“Mio marito”, che aveva giurato di proteggermi mi aveva sparato. Nella mia testa vedevo ancora gli occhi infuocati di Nadir che mi fissavano. 
Era arrivata la mia fine, la fine del mio sogno, la fine delle sofferenze. C’era una parte positiva, non avrei più subito le violenze di Nadir. Ma adesso, Allah, dove mi avrebbe spedita? Dove sarei andata a finire? Sono stata una cattiva moglie? Ho disobbedito, lo so, ma l’ho fatto per il mio bene. 
Sono una donna e amo giocare a pallavolo ed è forse questo quello che mi merito?



Vuoto.
Vuoto.
Vuoto.
Sento solo un vuoto che sembra quasi colmarmi, che sembra quasi calmarmi.
L'eco dello sparo che ha prodotto quell'affare che ho tra le mani risuona ancora vividamente nelle mie orecchie ogni volta che la mia mente ritorna a quella notte, ogni volta che la mia mente ritorna a quell'esatto istante che cambiò la mia vita.
Una vita che ammetto sarebbe potuta andare meglio, che avrei potuto vivere altrove, una vita della quale, magari, non mi sarei pentito.
 Ma qualcuno ha avuto altri piani per me, è sempre stato così, sin da quando ero bambino e preferivo restare a casa con le mie sorelline e la mia mamma a giocare ma mio padre con quel timore che incuteva mi faceva alzare da terra e mi portava con lui a lavorare. "Vuoi per caso diventare inutile come loro?" soleva ripetermi. Io non capivo perché definisse inutili quella che era sua moglie e quelle che erano le sue stesse bambine, sangue del suo sangue. Per indole ho sempre chinato la testa e annuito. Forse è anche per questo se mi ritrovo qui a contemplare il corpo ferito e inerme di quella donna che mi fecero sposare a soli 17 anni.
 E ancora adesso, che scruto quegli occhi che fissano il vuoto ma che una volta squadravano l'ambiente attorno a sé con timore e smarrimento, non capisco cosa ci fosse di sbagliato in lei, cosa ci fosse stato di così compromettente in ciò che stava facendo assieme a quelle altre donne, immerse anche loro in una pozza di sangue e sparse qua e là in quel bunker, che una volta erano sue compagne di squadra e anche di vita.
Credo di star per svenire, o forse sono già a terra con gli occhi semichiusi.
Non so, attorno a me ci sono solo uomini che urlano e continuano a sparare. Perché stanno sparando? Perché in fondo alla stanza vedo quella donna che mi ha cresciuto e che mi ha riempito d'amore osservarmi con uno sguardo che vorrebbe gridare "mi hai deluso più di chiunque altro!"? Domande, domande e solo domande. Che senso aveva farmi delle domande se non avrei mai avuto delle risposte? Che senso aveva proporre a mio padre di far venire le mie sorelline a lavorare con noi se tutto ciò che ricevevo per risposta erano uno schiaffo e un'esclamazione del tipo "Vuoi per caso che ridano di noi? Vuoi per caso che gli altri pensino che ci facciamo mancare di rispetto da loro fin da ora che sono piccole? Se possono venire a lavorare con noi il prossimo passo quale sarà? Fare uscire tua madre con le amiche?". Giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno cominciai a farmene una ragione, credo. Pian piano smisi di chiedere perchè mia madre non potesse uscire di casa senza suo fratello o senza suo padre o senza qualche altro nostro familiare che non fosse un uomo. Smisi anche di chiedermi perché a soli 7 anni le mie sorelline sapevano già svolgere gran parte delle attività domestiche fino a quando un giorno, per il 13esimo compleanno della più grande non vidi un uomo di circa 30 anni portarla via con sé. Mia mamma, in lacrime si permise di rivolgere la parola a mio padre senza chiedere prima il permesso solo per sapere quando avrebbe potuto rivedere la sua bimba (che ormai era diventata donna), ma anche lì l'unica risposta che riuscì a dare mio padre fu uno schiaffo, soffocato nel silenzio aberrante che regnava in casa in quel momento, che non faceva altro che celare la nostra paura. Non rividi mai più mia sorella, così come non rividi mai più l'altra, che due anni dopo venne data in sposa ad un vecchio lurido che aveva fatto fortuna all'estero.
Col passare degli anni diventavano sempre più insistenti le mie domande, che adesso vertevano sul mio di futuro, sul mio di destino.
"Anche io me ne andrò? Se , quando?".
La risposta non tardò molto ad arrivare che una mattina mio padre mi venne a svegliare più presto del solito. Ero molto stanco e non avevo le forze di alzarmi dal letto, ma ben presto ci pensarono le sue frustate con la cintura a farmi mettere i piedi a terra e a darmi una mossa. Mia madre era più irrequieta del solito e con frenesia cercava negli armadi quelli che sembravano essere vestiti adatti a me ma che avevano un qualcosa di particolare.....erano fin troppo eleganti.
Malgrado non capissi cosa stesse succedendo, o forse perché capii molto bene ciò che di lì a poco sarebbe accaduto, m'infilai quei pantaloni, la camicia e la giacca.
Camminammo per un bel po' prima che mio padre si fermasse dinanzi una casa. Parlò con un signore, che successivamente ci fece entrare. Giungemmo in quello che sembrava essere un salotto, molto scarno, al centro del quale vi era una ragazzina che mi fissava, con gli occhi gonfi di lacrime e che veniva squadrata intensamente dalla madre. Mio padre mi poggiò una mano sulla spalla e mi disse "è tua". Neanche fosse stata una bambola! Che avrei dovuto farmene? Avrei dovuto camparla io? Avevo solo 17 anni e non potevo pensare a cosa sarei andato incontro. Il fratello sembrava essere intimorito dalla mia presenza, forse perchè, a differenza sua, ero più possente o magari era solo una mia impressione. Perché non badava lui a sua sorella? Non so neanche come si chiama questa qua e ora dovrò rincasare ogni sera con qualcosa da mangiare per lei e per i figli che scommetto lei mi dovrà dare. Qualche giorno dopo ci fu la festa di matrimonio. Cosa c'era da festeggiare se mi sentivo a disagio e se pure per muovere un passo in avanti sentivo gli occhi inquisitori di mio padre addosso? Ero inorridito da tutto ciò e ancora di più lo fui quando alla fine della festa mio padre venne da me e mi disse "Tra un mese e un giorno voglio che si respiri aria di ‘nipotino in arrivo’ o ammazzo entrambi". Con le lacrime agli occhi feci quello che sapevo fare meglio: chinai la testa e annuii.
Il concepimento fu un inferno, lei sembrava una bambina viziata ed ero infastidito dalla sua presenza. Ma la parte peggiore erano le sue urla e il suo volersi ribellare a me. Il motto di mio padre era quello di farsi rispettare e d'ora in poi sarebbe dovuto diventare anche il mio. Fu per questo che le diedi uno schiaffo, il primo che diedi mai a qualcuno in vita mia. Sentii un brivido attraversarmi la schiena nuda. Ogni volta che cercò di opporsi a me la presi a schiaffi fino a ricoprire il suo intero corpo  di lividi.
E' incredibile come piccole abitudini che cominciavo a prendere giorno dopo giorno mi fecero diventare più simile a mio padre di quanto avessi mai potuto pensare.
Non avendo mai avuto modo di sfogare la rabbia dettata dalle frustrazioni di quella piccola e misera vita cominciai ad aggrapparmi a lei. Quando ero più frustato del solito la prendevo a botte e a volte le facevo preparare da mangiare solo per me e per il nostro figliuolo (che fortuna, un maschio!) e la mandavo a letto.
Ultimamente, però notai che usciva fin troppo spesso di casa. Le era presa la smania di farsi accompagnare da mio cognato al mercato e i suoi piatti sapevano sempre di un mix di spezie che a volte mi davano alla testa. E la vedevo sempre indossare un sorriso malizioso su quel volto che tante volte ,ammetto, maltrattai ingiustamente.
Addirittura una volta fece tardi, e cenammo con mezz'ora di ritardo. La vidi tornare a casa con la fronte madida di sudore. Le ordinai di dirmi dove fosse andata ma era chiaro che mi stesse raccontando frottole. Decisi quindi di farla seguire e, effettivamente, si recava al mercato per un po', ma poi compiva un insolito tragitto fino ad arrivare ad un minimarket. Un giorno decisi di seguirla personalmente e lo spettacolo che trovai mi fece provare ribrezzo di quell'essere che mi avevano fatto sposare. Sembrava mansueta ma in realtà era una bastarda come tutte le altre. Se mio padre avesse scoperto ciò che mi ero ritrovato a scoprire io, avrebbe torturato fino alla morte mia madre. Decisi di tenermi tutto dentro ma per poco, e cercai di incastrarla in più modi possibili ma lei non confessò mai che quando usciva in realtà si recava in quel buco di posto a giocare a pallavolo. Una donna che gioca a pallavolo, per giunta senza burqa! Ne avevo fin sopra i capelli di quel mostriciattolo.
Ben presto anche altri miei colleghi cominciarono a capire che ci fosse qualcosa che non andava con le loro mogli e quando ci rendemmo conto che facevano tutte parte dello stesso "club" decidemmo di annientarle...si sarebbero pentite di aver provato a prenderci in giro.
E così arrivai a commettere il mio primo omicidio, e ultimo!
Ora che finalmente l'avevo eliminata pensavo mi sarei sentito meglio e invece continuo a sentire un vuoto che mi opprime. Perché l'ho fatto? Era solo un gioco? Era forte in campo? Avrebbe reso orgoglioso nostro figlio vincendo qualche partita o magari un campionato? Il senso di vuoto cominciò a diventare insopportabile ma non voglio chinare la testa e annuire, sono stanco di tutto ciò. Ed è meglio che anch'io smetta di vivere. Appoggio la pistola sulla mia tempia e premo il grilletto.

Daniela Guzzo e Pietro Pendolino

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